Fissai la bottiglia sul tavolo con moderata concentrazione. 
Divenne, lentamente, sempre più inconsistente fino a mutare in un'immagine inavvertibile, quasi astratta.
Mi voltai verso la porta dove stava, ritta su gambe fluide, come diluite, la mia ex fidanzata Amandine  la quale, ricordo, abitò tutte le isole delle mie fantasticherie per un tempo che ancora oggi appare eterno.
I suoi occhi dominavano lo spazio ormai avvolto dal freddo dell'inverno. Erano i primi di dicembre e dalla finestrella che dava sul cortile, curato con affezione da mia madre fin quando la malattia di mio padre coincise con la fine di tutte le cose, si intravedevano solo la pittoresca casa del fornaio e l'ombra sottile di Amandine che oscillava lieve come una falena cometa. Il sole si era prosciugato da un pezzo. La luna aveva già truccato il cielo di buio e, in giro, i lampioni illuminavano a tratti solo la strada che portava dallo zio Robert. 
Guardai in alto mentre dal cielo cadevano le mie lacrime sottili, distese sul canto gentile di alcuni gruppi sparuti di cardellini che sedevano, composti, sopra i tralicci dell'alta tensione.
La strada era ubriaca di silenzi. Nel velo azzurro della notte, la sentii accostarsi impercettibilmente al ripiano della cucina, del tutto occupato da piatti e pentole sudici. Mi vergognai e cercai di affogarli, svelto, dentro un catino colmo d'acqua. 
Per un pò, dimenticai le sue ali gialle e una manciata di stelle si posò, in pace, sul lastricato delle nostre divergenze.
Avrei voluto dirle che mia madre non aveva avuto il tempo di dedicarsi alle faccende, quel fine settimana. Che le visite al babbo, in ospedale, si erano fatte sempre più frequenti e la casa, a quel punto, era stata affidata a me, con indegni risultati. Non dissi niente sperando, come sempre, che avrebbe capito.
Lasciai le mani immerse nell'acqua fredda ancora per qualche istante.
Ci scambiammo uno sguardo furtivo, mi pare. Fatto sta che presi un panno di lino, asciugai senza troppa cura le mani e posai i piatti in un mobiletto in basso, alla mia destra.
Non restò altro da fare che continuare a osservare la sua anima. 
Il tempo mi rivelò che sarebbe stata lei, l'unica in grado di misurare e comprendere la mia.
Parlò sottovoce, a un certo punto, quasi supplicandomi di smettere. 
Smettere di far cosa, poi. Eppure le dissi:
Non avevi che da chiedermelo. 
Mi vidi abbassare la schiena di scatto per allacciare le scarpe, ricadendo nuovamente nel mio stesso imbroglio.
Fu in quel momento che mi accorsi di un suo inaspettato gesto di benevolenza. Qualcosa che non ricordo distintamente. Mi sentii comunque sollevato quando alcune parole di comprensione parvero tramontare dalle sue labbra al mio cuore, teneramente. Le presi per mano, così come avrei voluto afferrare le sue, ma la distanza fra noi era divenuta, ormai, insormontabile. 
Mi sorrise appena.
Riuscii a pronunciare soltanto alcuni concetti rattoppati in un discorso scriteriato e confuso fino a svegliarmi con l'impressione d'esser più nudo di quanto in realtà fossi.

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